LA FUGA DI LUCA
(…)
Si voltò per la prima volta e vide i tre più vicini che mai.
Uno scatto un po’ più potente e lo avrebbero raggiunto senza problemi.
All’improvviso vide a qualche passo un metallaro che stava uscendo dal portone
del suo palazzo. Si infilò dentro di nascosto senza che lo sconosciuto fiatasse
minimamente e salì le scale senza pensarci su due volte continuando però a
sentire da sotto le voci dei suoi inseguitori e il rumore del portone chiudersi
dietro loro.
Le gambe oramai non gli tenevano più, il fiato cominciava a
dargli un senso di nausea insopportabile, l’addome dava forti contrazioni e
l’eco delle grida che emettevano quei due non gli davano nessuna speranza...
secondo, terzo, quarto piano. Il cuore era oramai arrivato in gola, pulsava
come se dovesse esplodere da un momento all’altro.
Il resto dei piani li divorò come un incubo divora i sogni.
Finalmente arrivò ad una porticina che dava sul tetto, cercò
di aprirla maneggiando con forza la maniglia... niente!
Guardò verso il basso ed i due ‘nemici’ erano al piano di
sotto.
1... 2... 3... prese una breve rincorsa e sfondò quella
porticina di legno verde; un attimo di smarrimento e poi intravide una scala
appoggiata al parapetto del tetto, la montò, scese dall’altra parte dove c’era
il tetto dell’edificio adiacente, sradicò la scala del muretto e la gettò di
sotto.
Poco dopo sentì una voce... ”Dov’è, dov’è!... Non avrà
saltato di là!”
Non lo avrebbero raggiunto senza la scala. Ciò non gli dava
comunque una certa tranquillità.
Trovò una porta aperta che illuminava il tetto e che dava
sulla tromba delle scale.
Ma perché scendere per le scale di quell’edificio con il
rischio di incontrare davanti al portoni quei tre stronzi di nuovo?
La paura fa 90, come si suol dire, no?
Avrebbe sfidato un suo atavico timore - le vertigini - pur di riuscire a farla franca e lasciarsi
alle spalle quell’inatteso pericolo.
Chiuse gli occhi, fece l’ennesimo respiro e saltò a cavallo
di un muro.
Avrebbe passeggiato sui tetti delle case che mancavano per
finire il corso Como, sarebbe sceso per l’ultimo palazzo e poi sarebbe uscito
dal portone con la speranza di non essere notato.
Fu la camminata più lunga e pericolosa della sua vita.
Fu la camminata più lunga e pericolosa della sua vita.
Proseguì con il corpo ‘incollato’ al tetto in posizione
obliqua, cercando di mantenere il baricentro del suo peso in direzione delle
tegole. Ogni passetto di lato era una scommessa con se stesso e con il suo
equilibrio, un movimento sbagliato, una semplice leggerezza e sarebbe scivolato
giù con poche speranze di aggrapparsi a qualcosa.
Raggiunse così l’ultimo tetto, quello con le tegole più
umide e fredde. Aveva veramente paura adesso, l’umido delle tegole avrebbe
potuto giocargli qualche brutto scherzo.
Le gocce di sudore freddo scorrevano sul suo collo fino a
farsi sentire sulla schiena e centellinavano i secondi che scorrevano
interminabili sotto quel cielo buio dicembrino.
Un ultimo sforzo e avrebbe potuto scorgere quell’ipotetica
porta che lo avrebbe condotto al piano terreno del palazzo in questione.
Eccola lì, spuntava dalla cima del tetto con tutta la sua
discrezione.
La sua mano afferrò finalmente l’ultima tegola, lasciò
scivolare le gambe, appoggiò il ginocchio sull’orlo di cemento e scese sulla
terrazza dell’edificio. La porticina era a qualche metro. Che liberazione!
Si appoggiò alla porticina cercando di asciugarsi il sudore
sul collo e sulla schiena, diede un’occhiata prolungata intorno ed in seguito
alzò gli occhi in cerca di una serenità che aveva aspettato da troppo tempo.
Il cielo di Milano era più buio del solito, una striscia
indefinita di colore grigio che si perdeva con la linea dell’orizzonte e
opprimeva col suo peso i tetti delle case di quel quartiere.
Qualche istante di rilassamento ed il freddo iniziò a
penetrargli dentro il piumino ormai ridotto ad un sudiciume di giaccone.
La porta era chiusa maledettamente bene, nemmeno qualche
forte spallata la avrebbe mossa di un millimetro.
Alzò il naso e notò una piccola finestrella. Un calcio secco
e diretto nel centro del cristallo ed il finestrino si ruppe di botto lasciando
qualche scheggia sul suo piumino ed altre conficcate nella cornice. Avrebbe
rischiato tagli ed escoriazioni, ma passare la notte al gelo aspettando che
qualcuno si fosse svegliato all’alba per aprirgli quella porta sarebbe stata la sua condanna a morte.
Appoggiò il piumino alla cornice coprendo le punte e fece
scivolare il suo corpo lentamente fino a cadere per terra dall’altro lato.
Riprese il piumino e cercò dentro le sue tasche un
fazzoletto o qualcosa del genere: si era ferito a una mano. Il taglio non era
profondissimo, ma gli procurò un dolore rapido e aspro che squarciò il silenzio
di quell’antro.
Trovò in un taschino un pacchetto di fazzoletti di carta che
macchiò tutti in una manciata di respiri. Il sangue continuava a fuoriuscire,
ma per il momento doveva solo scendere quelle scale e uscire dal portone una
volta per tutte.
Aspettò che la luce della portineria si spegnesse per fare
l’ultima rampa e incollare la sua faccia ai vetri del portone.
Tutto pareva tranquillo. Avrebbe aperto la porta e sarebbe scappato per quella stessa
via che non riconosceva e che era ancora troppo vicina per dargli quella
sicurezza necessaria per svignarsela.
Si tolse il piumino, lo appallottolò frettolosamente e lo
nascose dietro il sottoscala. Prese qualche straccio che stava giusto lì, li arrotolò
sulla mano sofferente e fece un nodo stretto.
Scrutò ancora un poco la situazione fuori dai vetri; aprì la
porta e uscì dalla portineria.
Si indirizzò con passo svelto verso la fine del viale. Dopo
una ventina di respiri si voltò per verificare che tutto fosse tranquillo.
Calma apparente...
Sarebbe arrivato fino alla fine del viale ed in seguito si
sarebbe messo a correre all’impazzata per allontanarsi il più velocemente
possibile da quella zona.
Giunse al semaforo così tanto anelato e poi via...
Iniziò a correre verso il cimitero Monumentale, inghiottì
strade, marciapiedi, palazzi nel giro di seicento respiri. Svoltò l’angolo...
via Procaccini. Era abbastanza lontano per non essere visto. Ma adesso cosa
avrebbe fatto? Dove sarebbe andato?
E mentre questi pensieri giocherellavano nel suo cervello
vide passare dinanzi al suo naso il 33 che andava verso corso Sempione. Aguzzò
la vista. La fermata era a un centinaio di metri, poteva farcela. Avrebbe preso
il 33, poi chissà...
Per lo meno gli avrebbe dato la sensazione di essere al
sicuro, di raggiungere qualcosa, fosse anche il capolinea del tram.
Ricominciò a correre sbracciandosi disperatamente in
direzione del conducente, aumentò la corsa come per diminuire la distanza tra
lui e il mezzo, ma tutto fu vano.
Rimaneva ancora qualche metro per raggiungere la fermata.
“Apri quelle porte, dai!” urlò a più non posso... Ma ormai
quella cabina arancione su rotaia aveva di gran lunga superato la fermata.