martedì 21 maggio 2013

LA FUGA DI LUCA


LA FUGA DI LUCA

Scusate tutto questo ritardo nell'aggiornare il blog, ma come molti di voi sanno ho avuto non pochi problemi col mio lavoro e per questo sono stato un po'latitante...ma comunque...rieccomi qua...oggi voglio postare una dei passi più 'senza fiato' del libro....la fuga del protagonista suoi tetti di Milano inseguito da alcuni balordi che lo vogliono pestare a sangue...
 
 
 

(…)

Si voltò per la prima volta e vide i tre più vicini che mai. Uno scatto un po’ più potente e lo avrebbero raggiunto senza problemi. All’improvviso vide a qualche passo un metallaro che stava uscendo dal portone del suo palazzo. Si infilò dentro di nascosto senza che lo sconosciuto fiatasse minimamente e salì le scale senza pensarci su due volte continuando però a sentire da sotto le voci dei suoi inseguitori e il rumore del portone chiudersi dietro loro.

Le gambe oramai non gli tenevano più, il fiato cominciava a dargli un senso di nausea insopportabile, l’addome dava forti contrazioni e l’eco delle grida che emettevano quei due non gli davano nessuna speranza... secondo, terzo, quarto piano. Il cuore era oramai arrivato in gola, pulsava come se dovesse esplodere da un momento all’altro.

Il resto dei piani li divorò come un incubo divora i sogni.

Finalmente arrivò ad una porticina che dava sul tetto, cercò di aprirla maneggiando con forza la maniglia... niente!

Guardò verso il basso ed i due ‘nemici’ erano al piano di sotto.

1... 2... 3... prese una breve rincorsa e sfondò quella porticina di legno verde; un attimo di smarrimento e poi intravide una scala appoggiata al parapetto del tetto, la montò, scese dall’altra parte dove c’era il tetto dell’edificio adiacente, sradicò la scala del muretto e la gettò di sotto.

Poco dopo sentì una voce... ”Dov’è, dov’è!... Non avrà saltato di là!”

Non lo avrebbero raggiunto senza la scala. Ciò non gli dava comunque una certa tranquillità.

Trovò una porta aperta che illuminava il tetto e che dava sulla tromba delle scale.

Ma perché scendere per le scale di quell’edificio con il rischio di incontrare davanti al portoni quei tre stronzi di nuovo?

La paura fa 90, come si suol dire, no?

Avrebbe sfidato un suo atavico timore - le vertigini -  pur di riuscire a farla franca e lasciarsi alle spalle quell’inatteso pericolo.

Chiuse gli occhi, fece l’ennesimo respiro e saltò a cavallo di un muro.

Avrebbe passeggiato sui tetti delle case che mancavano per finire il corso Como, sarebbe sceso per l’ultimo palazzo e poi sarebbe uscito dal portone con la speranza di non essere notato.
Fu la camminata più lunga e pericolosa della sua vita.

Proseguì con il corpo ‘incollato’ al tetto in posizione obliqua, cercando di mantenere il baricentro del suo peso in direzione delle tegole. Ogni passetto di lato era una scommessa con se stesso e con il suo equilibrio, un movimento sbagliato, una semplice leggerezza e sarebbe scivolato giù con poche speranze di aggrapparsi a qualcosa.

Raggiunse così l’ultimo tetto, quello con le tegole più umide e fredde. Aveva veramente paura adesso, l’umido delle tegole avrebbe potuto giocargli qualche brutto scherzo.

Le gocce di sudore freddo scorrevano sul suo collo fino a farsi sentire sulla schiena e centellinavano i secondi che scorrevano interminabili sotto quel cielo buio dicembrino.

Un ultimo sforzo e avrebbe potuto scorgere quell’ipotetica porta che lo avrebbe condotto al piano terreno del palazzo in questione.

Eccola lì, spuntava dalla cima del tetto con tutta la sua discrezione.

La sua mano afferrò finalmente l’ultima tegola, lasciò scivolare le gambe, appoggiò il ginocchio sull’orlo di cemento e scese sulla terrazza dell’edificio. La porticina era a qualche metro. Che liberazione!

Si appoggiò alla porticina cercando di asciugarsi il sudore sul collo e sulla schiena, diede un’occhiata prolungata intorno ed in seguito alzò gli occhi in cerca di una serenità che aveva aspettato da troppo tempo.

Il cielo di Milano era più buio del solito, una striscia indefinita di colore grigio che si perdeva con la linea dell’orizzonte e opprimeva col suo peso i tetti delle case di quel quartiere.

Qualche istante di rilassamento ed il freddo iniziò a penetrargli dentro il piumino ormai ridotto ad un sudiciume di giaccone.

La porta era chiusa maledettamente bene, nemmeno qualche forte spallata la avrebbe mossa di un millimetro.

Alzò il naso e notò una piccola finestrella. Un calcio secco e diretto nel centro del cristallo ed il finestrino si ruppe di botto lasciando qualche scheggia sul suo piumino ed altre conficcate nella cornice. Avrebbe rischiato tagli ed escoriazioni, ma passare la notte al gelo aspettando che qualcuno si fosse svegliato all’alba per aprirgli quella porta  sarebbe stata la sua condanna a morte.

Appoggiò il piumino alla cornice coprendo le punte e fece scivolare il suo corpo lentamente fino a cadere per terra dall’altro lato.

Riprese il piumino e cercò dentro le sue tasche un fazzoletto o qualcosa del genere: si era ferito a una mano. Il taglio non era profondissimo, ma gli procurò un dolore rapido e aspro che squarciò il silenzio di quell’antro.

Trovò in un taschino un pacchetto di fazzoletti di carta che macchiò tutti in una manciata di respiri. Il sangue continuava a fuoriuscire, ma per il momento doveva solo scendere quelle scale e uscire dal portone una volta per tutte.

Aspettò che la luce della portineria si spegnesse per fare l’ultima rampa e incollare la sua faccia ai vetri del portone.

Tutto pareva tranquillo. Avrebbe aperto la  porta e sarebbe scappato per quella stessa via che non riconosceva e che era ancora troppo vicina per dargli quella sicurezza necessaria per svignarsela.

Si tolse il piumino, lo appallottolò frettolosamente e lo nascose dietro il sottoscala. Prese qualche straccio che stava giusto lì, li arrotolò sulla mano sofferente e fece un nodo stretto.

Scrutò ancora un poco la situazione fuori dai vetri; aprì la porta e uscì dalla portineria.

Si indirizzò con passo svelto verso la fine del viale. Dopo una ventina di respiri si voltò per verificare che tutto fosse tranquillo. Calma apparente...

Sarebbe arrivato fino alla fine del viale ed in seguito si sarebbe messo a correre all’impazzata per allontanarsi il più velocemente possibile da quella zona.

Giunse al semaforo così tanto anelato e poi via...

Iniziò a correre verso il cimitero Monumentale, inghiottì strade, marciapiedi, palazzi nel giro di seicento respiri. Svoltò l’angolo... via Procaccini. Era abbastanza lontano per non essere visto. Ma adesso cosa avrebbe fatto? Dove sarebbe andato?

E mentre questi pensieri giocherellavano nel suo cervello vide passare dinanzi al suo naso il 33 che andava verso corso Sempione. Aguzzò la vista. La fermata era a un centinaio di metri, poteva farcela. Avrebbe preso il 33, poi chissà...

Per lo meno gli avrebbe dato la sensazione di essere al sicuro, di raggiungere qualcosa, fosse anche il capolinea del tram.

Ricominciò a correre sbracciandosi disperatamente in direzione del conducente, aumentò la corsa come per diminuire la distanza tra lui e il mezzo, ma tutto fu vano.

Rimaneva ancora qualche metro per raggiungere la fermata.

“Apri quelle porte, dai!” urlò a più non posso... Ma ormai quella cabina arancione su rotaia aveva di gran lunga superato la fermata.